Il Racconto/ 27 anni fa, battendo la Triestina, il Foggia tornava in A… e fu “l’Alba di un giorno infinito”
Il 19 Maggio 1991, in uno Zaccheria cantierizzato dall’abbattimento della storica Tribuna avvenuto subito dopo la vittoria sull’Ascoli, i rossoneri tornavano in A 13 lunghi anni dopo il maledetto gol di Scanziani. Riviviamo, nello splendido racconto di Fabio Chiappinelli, il clima e l’atmosfera respirata da un’intera generazione intorno a quella data storica… ovvero, “l’Alba di un giorno infinito”, quando il Foggia dei sogni, battendo con un indimenticabile 5 a 1 la Triestina, tornava in serie A, aprendo l’epopea di Zemanlandia.
27 Anni dopo
Domenica mattina, inizio anni 90.
Sto nel letto a poltrire fino alle 10, dopo un sabato sera di orge e bagordi…seee, magari! Comitiva al 95% composta da maschietti con un paio di infiltrate brutte come una cartella esattoriale di Equitalia ma che, forti dell’assenza di altre fanciulle potabili, se la tiravano come Naomi Campbell in passerella.
Un manipolo di ormoni impazziti che si ritrovava alla fine in una pizzeria e che per vedere una tetta doveva rifugiarsi dal mai troppo lodato Umberto Smaila con le sue ragazze cin cin.
Una vitaccia.
Ora, se mi guardo in giro, vedo ragazzine tredicenni fatte formate e finite e solo il terrore di finire sotto processo per pedofilia, mi trattiene anche solo dal pensare a cose sconce: un po’ come Fantozzi che, dopo che la signorina Silvani si era sposata con Calboni, non la sfiorava neanche col pensiero.
Eravamo rimasti alle dieci del mattino.
Era il tempo di Foggialandia, dei 30000 che sembravano 100000 (cit. Paolo Maldini) col quel magnifico pazzo totale di allenatore boemo, gioia e tormento di noi tifosi.
L’abbonamento in Curva Sud riposava al sicuro nel portafoglio, la partita un appuntamento irrinunciabile. Che, nel caso di specie, voleva dire andare allo stadio quando si giocava in casa almeno tre ore prima del fischio d’inizio.
Quindi alle 12.
Avevo due ore per svegliarmi del tutto, ripensare alla ragazza ciliegia di colpo grosso – una fantastica olandese – che, peraltro, ho visto in una foto recente ridotta a scaldabagno -, lavarmi, fare colazione e pranzo e scendere di casa.
In cucina c’era lei, mia mamma, con un grembiule azzurro. Sul tavolo il “tavoliere” un pezzo di legno per impastare e fare la pasta, nell’aria le note di canzoni anni 60 trasmesse da Radio Centrale con il mitico Renzo Longo, sui fornelli due pentole: una con il ragù messo a pippiare ed una frizzola con l’olio bollente.
Per friggere loro: le polpette.
Ricetta facile direte voi, miei carlocracco delle mie ciufole. Carne tritata, uova, pangrattato e, al limite, prezzemolo.
Ma quel sapore, con la croccantezza unita alla morbidezza, era la chiave del paradiso.
Quindi appena alzato, con ancora gli scazzilli negli occhi, entravo in cucina ed addentavo una, beh facciamo almeno un paio, polpetta ancora calda, e poi dritto verso lo stadio; non prima di averle dato un bacio.
Sono passati 27 anni. Credo che Vallanzasca ne abbia fatti meno di carcere. Era il tempo del borghetti nella bottiglia di coca cola, del primo bacio e della prima cotta seria e, perché no?, del primo spinello.
Nello Zaccheria suonava la domenica, perché allora si giocava solo la domenica, un’orchestra meravigliosa. Undici ragazzi che giocavano un calcio semplicemente avanti di vent’anni; allora, almeno io, avevo la netta percezione di assistere ad un qualcosa che avrei raccontato ai miei figli, ove mai avessi trovato una Madre Teresa che me l’avesse data, cosa che all’epoca sembrava essere la più irrealizzabile delle utopie. Ma la cosa che mi è rimasta più impressa era la crassa consapevolezza di non poter perdere: si era troppo più forti delle altre. Il segnare era solo una questione di tempo, l’unico dubbio era con quanti gol di vantaggio si sarebbe vinto. Tutto il godimento infinito di quegli anni, come per tutte le cose di questo mondo cinico e baro, lo avremmo ripagato negli anni successivi con dolori altrettanto definitivi, con orde di delinquenti dei quali qui è opportuno tacere anche il nome che vennero qui solo a succhiare il poco nettare che era rimasto.
Della partita, di quel Foggia – Triestina 5-1, mi pare superfluo ricordare lo spettacolo, la doppietta di Rambaudi e la tripletta di Ciccio; chi volesse può trovare ampie sintesi su YouTube. E poi la festa, con quel magnifico e gigantesco drappo rossonero, con una “A” bianca, portato tra gli altri da una persona che, anche se ha vestito i colori biancorossi, che per loro stessa natura formano una invereconda unione, mi manca tanto; specie dopo aver visto le impudicizie del nostro portiere di quest’anno. E la gioia, tanta, immanente e assoluta, quasi primitiva ed ancestrale.
Non vi siete persi semplicemente una festa; avete mancato un momento epocale, quando il dire “sono Foggiano” era motivo di vanto e di giubilo.
Ora siamo qui, 27 anni dopo, a ricordare e sperare di rivivere una emozione simile; chi vi scrive risalirà quei gradoni di cemento ancora e ancora.
E se il fato vorrà strizzarci di nuovo l’occhiolino, capirete cosa ha significato per noi, quell’uggioso pomeriggio di maggio.